Coronavirus, il virologo Palù: «La Lombardia non l’ha arginato, in Veneto i casi gestiti meglio sul territorio»

Coronavirus, il virologo Palù: «La Lombardia non l’ha arginato, in Veneto i casi gestiti meglio sul territorio»

Cari lettori per farvi avere una comprensione più corrispondente alla realtà della situazione dell'epidemia da Coronavirus ci affidiamo alla  competenza. In questo caso vi proponiamo un articolo del Corriere della Sera scritto dal collega Marco Imarisio che intervista un virologo d'eccezione, il prof. Giorgio Palù.EMERGENZA

Coronavirus, il virologo Palù: «La Lombardia non l’ha arginato, in Veneto i casi gestiti meglio sul territorio»
Giorgio Palù, ex docente di microbiologia a Padova, professore di neuroscienze a Philadelphia: «Oggi iniziamo uno studio sulla siero-prevalenza molto importante. I contagi di ritorno diventeranno “il” problema»

di Marco Imarisio

 

Casella di testo: «Siamo diventati un popolo di virologi, dove tutti parlano del virus. Peccato che in Italia, al contrario di Germania, Usa e altri, le ultime cattedre in virologia siano state assegnate nel 1982, e l’ultimo primariato risalga alla metà degli anni Novanta». Giorgio Palù non dice che una di quelle cattedre fu la sua, così come fu lui l’ultimo primario in quella specialità. «Poi tutto venne incorporato in Microbiologia. Certo, anche i virus sono microbi, ma la microbiologia si occupa di batteri, protozoi, parassiti, funghi, e poi anche di virus. Adesso vediamo quanto ci sarebbe bisogno di una unica e specifica disciplina in questa materia così particolare». Tra i suoi studenti era celebre per la franchezza, dote che sembra aver conservato. Uno degli studiosi italiani più considerati all’estero. Docente emerito di microbiologia a Padova, professore di neuroscienze a Philadelphia, presidente uscente causa pensione della Società europea di virologia, richiamato in servizio da Luca Zaia che gli ha affidato gli studi per isolare e sequenziare il virus (qui lo speciale «La parola alla scienza»). «Lavoro a stretto contatto con Azienda Zero, la struttura che organizza il sistema epidemiologico regionale. E oggi cominciamo uno studio sulla siero-prevalenza molto importante».

 

 

 

 

 

 

 











Perché lo ritiene tale?

«I benedetti tamponi ci danno la misura dei casi incidenti, ovvero quanti casi abbiamo al giorno in un determinato periodo. La prevalenza, un dato statistico che si ottiene attraverso l’esame del sangue, ci mostra invece la distribuzione del virus e può fornirci informazioni fondamentali» 

Quali?
«Incrociata con altri dati, può permetterci di capire se esiste una immunità specifica al virus, cosa che al momento nessuno sa, quanto può durare, e può darci indicazioni su come proteggerci dal contagio di ritorno, che in futuro diventerà non un problema, ma “il” problema». 

Vi state portando avanti?
«L’intenzione è quella. Ci servono, e parlo dell’Italia intera, dati che al momento non sono in nostro possesso. Dobbiamo mappare in fretta i soggetti asintomatici che sono o non sono venuti a contatto con il virus. In una fase di graduale ripresa delle attività, che spero venga presto, sono queste le cose da sapere, non altre». 

Di coronavirus ci si riammala?
«Ci sono alcuni casi aneddotici di persone malate più volte. Ma non fanno statistica. Però conosciamo la storia di questo virus». 

Cosa potremmo imparare?
«Come la Mers e la Sars del 2012, e gli altri di quella famiglia che danno semplici bronchiti, si tratta di virus che mutano poco. Ma, per fare un esempio, capita di prendere il raffreddore più volte». 

Quanto ci vorrà per avere una risposta?
«Dobbiamo attendere informazioni sulla variabilità della sequenza di questo specifico genoma. Al contrario di molti, non sono però pessimista. La Sars si è estinta in un anno, la Mers è ricomparsa in casi molto sporadici. Questo virus muta, ma poco». 

Perché la Lombardia ha un tasso di mortalità che ha raggiunto anche il 14% mentre il Veneto è fisso sul 3,3%?
«Sono due regioni con una dimensione socio-morfologica molto diversa. Codogno e Lodi sono città dove si vive in condominio, Vo’ Euganeo è un paesino sul Colli Euganei». 

Esaurita la premessa?
«Il Veneto ha ancora una cultura e una tradizione della Sanità pubblica, con presidi diffusi sul territorio. La Lombardia, molto meno». 

Sono stati fatti degli errori?
«Non sta a me dirlo. Ma in Lombardia hanno ricoverato tutti, esaurendo ben presto i posti letto. Il 60% dei casi confermati. Da noi, i medici di base e i Servizi d’igiene delle Asl hanno fatto filtro: solo il 20%. Tenendo a casa i positivi asintomatici si è evitato l’affollamento degli ospedali e la diffusione del contagio». 

In Lombardia, invece?
«Nessuno si è ricordato la lezione della Sars. Che è stato un virus nosocomiale, così come lo è il Covid-19. A diffusione ospedaliera. La scelta della Lombardia di trasferire i malati dall’ospedale di Codogno, che era il primo focolaio, ad altre strutture della regione, si è rivelata infelice». 

Quanto?
«Molto. Perché ha esportato il contagio, senza per altro che venisse monitorato subito il personale medico. Hanno agito sull’onda emotiva. Tutti dentro. Invece dovevano tenerne fuori il più possibile. Qualcuno non ha capito che questa non è un’emergenza clinica e di assistenza ai malati, ma di sanità pubblica». 

Ci spiega la differenza?
«Un nuovo virus, nei confronti del quale la popolazione è vergine, va affrontato in primo luogo con le misure preventive, con l’isolamento, bloccando il contagio. Non con l’automatismo Pronto soccorso-ricovero». 

Una questione culturale?
«Anche. Una forma mentis. In Lombardia esiste da molti anni una sana competizione pubblico-privato. Dove si evince la maggiore efficienza di ognuno? Dalle persone accolte in Pronto soccorso. Ricoverando, si è voluto mostrare efficienza in ambito clinico. Ma così non si è fatto alcun argine al virus».

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